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Dà della “milf” ad una collega in un post su Facebook. Licenziato.

31/03/2015
Polimeni Legal

Una sentenza che induce ad una maggiore consapevolezza sull’uso dei social network. L’ordinanza emessa dal Tribunale di Ivrea, del 28 gennaio 2015, analizza il ricorso contro il licenziamento di un dipendente causato da un post diffamatorio su facebook, ai danni dell’azienda e dei suoi dipendenti. All’origine del licenziamento c’è quindi un cattivo uso del social da parte di un dipendente che apostrofava con frasi volgari e offensive sia l’azienda sia le sue colleghe. L’azienda nell’aprile del 2014 attivava una procedura di licenziamento per giusta causa nei confronti del dipendente. Il dipendente quindi presentava ricorso al Tribunale di Ivrea contro il licenziamento e per la reintegra del posto di lavoro. Chiedeva inoltre la condanna dell’azienda ad un risarcimento dei danni. Per evidenziare l’assenza di una giusta causa, la difesa del dipendente faceva leva su una sentenza della Cassazione (Cass. Civ., se. Lav., sentenza 2 ottobre 2012, n 16752), espressa nei seguenti termini: “l’uso di espressioni offensive nei confronti del datore di lavoro… appare come una reazione, anche se eccessiva ed abnorme (ma anche istintiva) rispetto a promesse di parte datoriale non mantenute”. Il dipendente non negava la propria responsabilità sul post offensivo, ma, collegandosi alla suddetta sentenza, evidenziava la non gravità delle offese in relazione alla dinamica degli eventi.
Il Giudice non ha accolto la ragione difensiva in quanto non si era sviluppata nessuna dinamica che potesse portare ad una reazione istintiva da parte del dipendente, dato che quest’ultimo era stato assunto regolarmente dall’azienda. Egli ha reputato molto gravi le offese all’azienda, scritte nel post di facebook, sottolineando tutti gli elementi che accentuavano la lesività delle offese. Il post era rimasto a lungo sul social network in modalità pubblica, cioè il dipendente non si premurava di attuare impostazioni di privacy, rendendo pubblico a tutti l’accesso alla lettura del post. Le offese alle colleghe risultavano pesantissime e ingiustificate. Si descrivevano le colleghe come dedite al meretricio, usando anche un’ acronimo, “Milf”, che non solo intendeva offendere subdolamente l’intimità sessuale, ma anche l’età avanzata delle colleghe. Infatti, secondo il Giudice, un ipotetico eccesso di confidenza da parte delle colleghe non può in alcun modo giustificare le offese di natura sessista. Etichettando le stesse secondo certi stereotipi maschilisti e volgari ha reso palese la sua colpevolezza. Offese disgiunte da qualsiasi collegamento con la controversia di diritto del lavoro del dipendente. Secondo il Giudice la condotta in esame ricade in maniera evidente negli estremi di reato, secondo gli art 81 cpv, 595 c. 1 e 3 cod. penale, per la particolare intensità della violenza espressiva nei confronti non solo dell’azienda ma anche delle colleghe, lesiva della reputazione delle stesse.
Il Giudice, quindi, alla luce di quanto sottolineato e alla luce della mancata consapevolezza, da parte del dipendente, della gravità del proprio comportamento, ha rigettato il ricorso e confermato la giusta causa del provvedimento esplusivo subito dal ricorrente, condannando lo stesso al pagamento delle spese processuali sostenute dalla resistente, liquidate in euro 3.500,00 per compensi, oltre 15,00% rimb. forf. spese generali, I.V.A. e C.P.A. come per legge.
L’ordinanza conferma l’orientamento della giurisprudenza verso il licenziamento per giusta causa (App. Torino, sentenza del 17 luglio 2014, n. 164; Tribu. Milano, sez. lav., ordinanza del 1 agosto 2014) per post denigratori a danno del datore di lavoro. La novità è rappresentata dall’estensione della legge anche alle offese nei confronti delle stesse dipendenti dell’azienda.
La particolarità del caso in esame è rappresentata dalla labilità della gestione dei social network e dalla mancata consapevolezza delle regole legate al suo utilizzo. Infatti se l’uso dei social network non è disciplinato da una certezza regolamentare all’interno dell’azienda può venire a mancare la consapevolezza del dipendente nell’utilizzo del mezzo mediatico, rischiando di danneggiare la reputazione dell’azienda e, in questo caso, anche dei colleghi di lavoro. Un uso consapevole del proprio profilo sui social network aiuterebbe a prevenire problematiche gravi di questo tipo. Il controllo meticoloso di tutte le opzioni necessarie messe a disposizioni dai social e un uso responsabile della privacy, il controllo costante dei propri contatti, contribuiscono alla prevenzione di eventuali azioni che possano danneggiare tutti gli attori in questione.

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